Il borgo di San Giovanni

“A mille passi vi è Villa S. Iohannis” così il Febonio, nella Storia dei Marsi del 1678, colloca l’attuale paese di San Giovanni rispetto al capoluogo comunale. Infatti, a circa 3 km da Sante Marie, ai piedi del versante nord-est di Monte Bove, adagiata su un crinale si erge la frazione di San Giovanni. Nel 1728 il sacerdote Giò Antonio Nanni, abate della chiesa “sotto il titolo della natività di S. Giovanni Battista”, scrive che questa Villa anticamente era nominata “Casa Vetrana”. La stessa menzione, “Ecclesia Sancti Iohannis de Casavetrana” è già contenuta nel Libro delle Decime Vaticane dell’anno 1324. Le denominazioni di Casa Vetrana (antica) e di Villa, con il ritrovamento in località Madonna della Stella di tubazione in terracotta, fanno presumere che l’attuale paese tragga origine da una “villa rustica romana”, convertita nel medioevo in “corte” dei vicini monasteri di S. Paolo in Orthunis e di San Benedetto. Le ville rustiche e le curtis benedettine erano vere e proprie aziende agricole, stanziate nei territori di pianura e negli altipiani collinari serviti da sorgenti e ruscelli di acqua. Si trattava di piccoli nuclei di case e stalle raccolti intorno ad una chiesa che accoglievano una pluralità di famiglie dedite all’agricoltura, all’allevamento e alla gestione di mulini. Lo status di “corte monastica” potrebbe spiegare l’assenza di S. Iohannis dall’elenco dei possedimenti feudali fino al secolo XVII.

Il monastero di San Benedetto, forse inglobando ciò che restava di una più antica cella di monaci basiliani, si sviluppò nel pianoro racchiuso tra “fonte del Visco” e “colle S. Basile” a circa metà strada tra Tremonti e San Giovanni. Fino a qualche decennio fa, seppur nascosti dalla fitta vegetazione, si potevano ancora osservare avanzi di muratura e numerosi terrazzamenti realizzati con pietrame a secco. Al contrario, delle strutture del monastero di S. Paolo in Orthunis non rimane sfortunatamente nulla. Nella bolla di Papa Clemente III del 1188 era denominato “Sancti Pauli in Via Romana”. La collocazione dopo la chiesa di “Sanctae Ceciliae in Taliaecotio” e prima di “Sancti Maximi in Rocca di Cerro” fa presumere che il monastero si trovasse nei pressi dell’antica via Valeria nel tratto compreso tra Alto la Terra e Rocca di Cerro Indicazioni più precise sulla possibile collocazione del monastero ci arrivano dalla tradizione orale. Il toponimo di “S. Paolo” indica l’area limitrofe l’attuale strada Tiburtina appena dopo il bivio per Tremonti dove, lavori di dissodamento agricolo, hanno portato alla luce mattoni di argilla, pietre semilavorate e tegolato antico. L’abate di San Paolo in Orthunis aveva il privilegio di eleggere il priore dell’altro monastero benedettino di Val dei Varri che, stando alla notizia riportata dallo scrittore Febonio, “nell’anno 1527, memorabile per il sacco di Roma, l’ingorda avidità e il furore barbaro non perdonò alle cose sacre … le soldatesche … finito desolare il castello con quello ad esso vicino detto Uppa, svaligiò li stracci delle povere suore”. Le religiose si rifugiarono a Scanzano, mentre parte della popolazione trovò rifugio nei più tranquilli villaggi di San Giovanni e di Sante Marie (Atti vertenza uso civico della tenuta di Luppa).

Nel XVI secolo S. Giovanni registrò oltre che uno sviluppo demografico anche uno sviluppo urbano. Due testimonianze dello accrescimento urbano possono essere osservate tutt’oggi nella parte bassa del paese: la prima l’iscrizione, D*A*C*F*Ø*M*  1569 , riportata sull’architrave sormontante l’ingresso della casa della famiglia Leonardi; la seconda è la data 1563 incisa sul portale della prospiciente cantina della famiglia Orsini. San Giovanni era il crocevia di due tracciati viari. Il primo, denominato “vicinale”, era un diverticolo della Via Valeria che da Carsoli risaliva la Valle di Luppa e Colle Civitella. Dal colle Civitella, scendeva poi verso il monastero di S. Benedetto e proseguiva nelle vicinanze di S. Giovanni, dove, mantenendosi ai piedi del versante settentrionale di Monte Bove, appena oltre il monastero di S. Paolo, si riuniva alla via Valeria. L’altro, di minore importanza, è quello che da castrum Tremontibus, con una serie di strette curve, scendeva al pianoro del monastero di S. Benedetto e, appena incrociata la “vicinale”, raggiungeva S. Giovanni. Il tratto di strada che collegava S. Giovanni al monastero di S. Benedetto è denominato nei successivi catasti, appunto, Via S. Benedetto.

Oltre l’abitato di S. Giovanni il tracciato scendeva per la “Grotta della Valle” e, raggiunto il piano, si dirigeva verso Poggetello. La “Grotta della Valle” è la vallata a sud-ovest del Paese. Il toponimo deriva dalla presenza, nella parte bassa, di una grotta naturale il cui ingresso negli anni è andato pian piano scomparendo per l’accumulo di sedimenti alluvionali. La tradizione vuole che, nell’antichità, questa galleria naturale avesse un altro ingresso nella zona a monte del paese. Si racconta, infatti, che la grotta si sviluppasse parallelamente alla via principale del paese e che venisse usata periodicamente come luogo e tragitto di processioni religiose. Sul finire del XIX secolo, gli abitanti di Villa S. Giovanni cercarono conferma di questa cronaca popolare, tanto che due di loro strisciando s’introdussero nella grotta. L’altezza della grotta non era regolare, dopo l’entrata i due riuscirono a camminare per lo più in posizione eretta e solo per brevi tratti a carponi. L’esplorazione si interruppe quando le candele usate per l’illuminazione si spensero. Con delle pietre presero a battere violentemente la volta della galleria riuscendo a comunicare la loro posizione al resto dei paesani che nel frattempo si erano dislocati lungo la strada del paese. Erano giunti in prossimità della chiesa parrocchiale. 

La vallata della “Rotte della Valle” fu centro nevralgico dell’economia rurale del paese di Villa S. Giovanni e delle vicine Università di Tremonti e Sante Marie. Una depressione verticale del terreno e l’abbondanza di acque sorgive l’hanno resa luogo ideale per la costruzione di impianti di macinatura. A monte di essa venne realizzata la vasca di carico detta “refota” che, oltre a serbatoio idrico per dare impulso alle pale o “retrecine” dei mulini a valle, serviva per la pulizia degli armenti locali e del circondario. L’acqua sorgiva servì anche per alimentare la vicina fontana pubblica che, con “prestazioni in opere in natura” da parte degli abitanti di San Giovanni, nel 1812 venne completamente “riaccomodata”. Delle barre trasversali permettevano di poggiare le conche sotto gli zampilli d’acqua che sgorgavano dai tre mascheroni in pietra. Il mascherone centrale, più grande, raffigurava una testa di leone, mentre i due laterali rappresentavano dei volti umani.

L’uso dell’acqua che fuoriusciva dalla “refota” fu, nel luglio del 1830, oggetto di una furiosa lite tra le comunità di S. Giovanni, Tremonti e Poggetello. L’acqua, dopo aver alimentato i mulini, veniva utilizzata per lavare i panni dagli abitanti di S. Giovanni e Tremonti per poi, infine, proseguire verso il piano di Poggetello. I Poggetellani, impegnati nel curare e trattare la canapa, si lamentavano dello scarso deflusso di acqua a causa delle numerose e continue deviazioni operate a monte dagli abitanti degli altri due paesi. Gli animi si sedarono solo quando la Sottointendenza di Avezzano, chiamata in causa, minacciò l’invio di una brigata di polizia. Anche i mulini furono oggetto di lite, infatti, nel 1530, l’Università di Tremonti aprì una vertenza per bloccare la costruzione di un mulino nella “Valle di S. Giovanni” da parte dell’Università di Sante Marie. Il giudice sentenziò che il terreno su cui si doveva edificare il mulino ricadeva tra i possedimenti di Sante Marie e non, come affermato nell’opposizione, tra quelli dell’Università di Tremonti. Ma, “essendo baronale il corso delle acque, percepir si dovessero al barone i frutti del mulino”, l’Università di Sante Marie dovrà attendere l’abolizione dei feudi per veder condannare i Colonna alla restituzione del mulino (Sentenza della commissione feudale del 31.8.1810).

Uno dei mulini di S. Giovanni, nel 1827, fu testimone di una tragedia: due ragazzi annegarono nel canale di scolo per cause mai appurate. Il 9 agosto del 1841 un nubifragio si abbatté su S. Giovanni e dintorni. La violenza e l’intensità del maltempo innescarono alluvioni e valanghe di dimensioni quasi apocalittiche: i terrapieni della “refota” franarono, la vicina fontana pubblica fu ingoiata dal fango ed il mulino, costruito nella parte inferiore e più stretta della valle, fu pressoché ridotto in macerie, gli altri due, posti più a monte, gravemente danneggiati. Nel settembre 1786 giunse a Napoli una comunicazione che mise in allarme anche il re. Si segnalava la casa canonica della chiesa parrocchiale di San Giovanni come luogo d’incontro per una setta di preti e di frati dedita alla diffusione tra la gente dell’adorazione del Demonio: “ammettendo loro piena libertà di coscienza … con la promessa che avrebbero conseguito danaro, donne, immortalità … e quanto potevano desiderare”.

Il Vescovo Vincenzo Layezza, incaricato delle indagini, così descrive le riunioni notturne della congrega: “La sera, in una stanza chiusa e illuminata trovavasi il Padre De Benedictis vestito di Cotta, che riceveva i congregati. Su di un tavolo erano due sedie vuote, su le quali Padre De Benedictis dicea di veder invisibili due Demoni che…si accostavano riverentemente ad adorare…tenendo una gamba alzata, cantando salmi, afferendoli incenso”. Le indagini appurarono che si trattava semplicemente di una astuta truffa organizzata da Padre De Benedictis per estorcere somme di denaro all’ingenuo Prete don Francescantonio Carletti ed altri sette giovinastri di Carsoli.

Il 19 luglio 1639 la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista fu visitata per la prima volta da un Vescovo dei Marsi, Lorenzo Massimi. In quell’occasione si provvide a redigere lo “stato delle anime della Villa”, ovvero il primo censimento conosciuto della popolazione di S. Giovanni. Il documento riporta, divisi per famiglia, i nomi e l’età di tutti i 216 abitanti. La famiglia più numerosa conta quattordici componenti: capo famiglia, moglie, figli, nonni, fratelli e sorelle “bizzochi” (non sposati). Il numero totale di famiglie è trenta come il numero di possessori di casa censiti nel catasto “preonciario o rustico” del 1662: i Carisio e i Valentini, sono i più numerosi, seguono  i Nanni, i Curtio, i Sabbatino. Il più facoltoso, invece, risulta essere Caretta Vittorio. Nel catasto del 1736 i proprietari censiti sono 47, si sono aggiunti i Borghesi, i D’Angelo ed i Nunzij. Nel catasto del 1764, il numero delle abitazioni sale a 53 ed oltre ai Conti troviamo anche i Leonardi. Nei secoli successivi si assiste ad un lento ma continuo aumento della popolazione. La massima crescita è registrata nel 1912, con 439 abitanti. 

Attualmente San Giovanni conta 114 residenti, dei quali 60 sono femmine e 54 maschi. Il più giovane, Giuseppe, ha 4 anni la più anziana, Laura, 92.

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Tutto ciò che devi sapere

Info Utili

1. Dove si trova la Grande Panchina?

Si trova nella Riserva Naturale delle Grotte di Luppa. In un luogo che permette ai visitatori di ammirare tutto il territorio. Presso l’ufficio della Riserva è possibile ottenere tutte le informazioni dettagliate per raggiungere la  grande panchina.

2. Che cos'è il Big Bench Community ProJect?

Il Big Bench Community Project (BBCP) è un’iniziativa ideata dall’artista Chris Bangle, che consiste nell’installazione di grandi panchine in varie località panoramiche.

3. Dove è possibile reperire il Passaporto ufficiale del Big Bench Community Project?

É possibile acquistare il proprio Passaporto Ufficiale del “Big Bench Community Project” presso l’ufficio della Riserva. Ciò ti permetterà di iniziare subito a collezionare i timbri delle panchine visitate.

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